Incipit di Sabotaggio d’amore di Amélie Nothomb
(Voland edizione, 1998)

Al galoppo sul mio cavallo, sfilavo tra i ventilatori.

Avevo sette anni. Niente era più piacevole che avere troppa aria nel cervello. Più la velocità fischiava, più entrava ossigeno che faceva piazza pulita.

Il mio destriero arrivò alla piazza del Gran Ventilatore, volgarmente detta piazza Tien An Men. Prese, per il viale della Bruttezza Abitabile.

Tenevo le redini con una mano. L’altra mano si abbandonava a un’esegesi della mia immensità interiore, carezzando ora il dorso del cavallo, ora il cielo di Pechino.

L’eleganza del mio equilibrio lasciava senza fiato i passanti, gli sputi, gli asini e i ventilatori.

Non avevo bisogno di spronare la mia cavalcatura. La Cina l’aveva creata a mia immagine: era una fanatica delle grandi velocità. Andava a passione interiore e a folle in delirio.

Fin dal primo giorno avevo capito l’assioma: nella Città dei Ventilatori, tutto quello che non era splendido era orribile.

Il che equivale a dire che quasi tutto era orribile.

Corollario immediato: la bellezza del mondo ero io.

Non che questi sette anni di pelle, carne, capelli e scheletro avessero di che eclissare le creature di sogno dei giardini di Allah e del ghetto della comunità internazionale.

La bellezza del mondo ero io che mi pavoneggiavo a lungo, offrendomi alla luce, era il mio cervello spiegato come una vela ai soffi dei ventilatori.

Pechino puzzava di vomito di bambino.

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